Resilienza: una parola che fa da sempre parte del dizionario ma che fino al 2020 probabilmente la maggior parte di noi non aveva mai sentito. Eppure in Val di Cembra c’è una certa esperienza a proposito. Basti pensare a quegli uomini e donne che, muretto dopo muretto, hanno domato le pendenze del territorio per poterle sfruttare al meglio e non dover abbandonare casa propria per cercare una situazione più facile altrove, o a quelli che attraversavano a piedi la valle (ci avete mai provato? Vi assicuriamo che non è per niente facile!) per portare il proprio figlio dal medico o per recarsi al lavoro, ma anche a chi non si è lasciato abbattere nemmeno dall’arrivo dell’alluvione nel 1966, che in molti casi ha spazzato via tutto…

 

Una volta la costruzione dei muretti a secco avveniva ad incastro, poiché ovviamente la malta non c’era. Tutta la famiglia si recava in campagna: gli adulti cercavano i sassi più grossi mentre i bambini e le donne cercavano nel campo i sassi piccoli che venivano messi nel “benel”, una cesta rettangolare non tanto alta con una maniglia nel mezzo. Il benel  veniva svuotato dietro alla facciata del muro e poi si procedeva alla ricerca dell’incastro perfetto.

Giorgia, Cembra

Vendemmia in famiglia – anni ’70

 

 

Zio Alceo ricorda l’alluvione che il 4 novembre del 1966 ha coinvolto tutto il Trentino, anche la Val di Cembra. Ricorda in particolare la furia del torrente Avisio che portava con sé materiali e alberi. Questi ultimi, in particolare, arrivavano nella zona del “pont dei vodi” completamente “peladi”. La gente se li portava via per far legna. In val di Cembra i danni sono stati ingenti. L’acqua ha portato via campi interi; a Giovo soprattutto nella zona di San Zorz. La strada di San Giorgio che si collega con la strada principale della Valle di Cembra sembrava un fiume. La mia famiglia ha (tuttora) un campo proprio lì, sotto la strada della che guarda verso l’Avisio. Mio zio racconta che la furia delle acque ha distrutto completamente due muri del campo, il più alto dei quali era di ben 7 metri, rendendo di fatto il campo inagibile. Lo zio prosegue raccontando che un signore di Lavis, visto il campo – o quel che ne restava – aveva commentato “Se fosse mio, lascerei perdere.” Ma il nonno e lo zio non ci hanno pensato un secondo a ricostruire tutto da zero. Così come la grande maggioranza dei contadini colpiti da questa sventura.

Elena, Giovo

 

Mia zia mi racconta che “sti ani” dall’abitato di Lona le mamme spesso dovevano attraversare le valli con il bimbo nel “ceston” per portarlo dal medico. Particolarmente struggente il caso della donna che doveva andare fino a Grumes, passando da Piazzo, per il figlio affetto da poliomelite.

Stefania, Lona

 

Mia mamma racconta che Il mio bisnonno aveva dato alla ditta selciatori – la prima ad aprire una cava di porfido ad Albiano – un pezzo del suo terreno in cambio di un posto di lavoro per i suoi figli, e mio nonno con i suoi fratelli hanno lavorato lì per tutta la loro vita.

Jenni, Segonzano

 

Quando erano piccoli i nonni, dopo la scuola, andavano con altri bambini nel bosco a prendere la legna o “per dalet”. Una volta la nonna, quando aveva solo 10 anni, è andata con un’amica e gli si è rotto il ceston: sono state in giro fino a notte perché non riuscivano a portarlo.

Sara, Valda

 

I bambini dovevano imparare a leggere e scrivere e fare i conti. Per i più grandicelli, da 12 a 14 anni, erano previste lezioni solo da dicembre a marzo perchè negli altri mesi erano indispensabili alla famiglia per il lavoro nei campi. D’inverno i ragazzini erano costretti a portare a scuola un ciocco di legna per riscaldare l’aula. 

Sofia, Mosana

 

Nonno Quirino per qualche anno ha lavorato alla cava di porfido di Lisignago e partiva ogni giorno a piedi da Lona. Al termine della dura giornata lavorativa, tornava indietro, sempre a piedi.

Stefania, Lona

 

La bisnonna Filomena, nonostante la grande mole di lavoro che aveva in casa, con due figli da badare, spesso accompagnava il nonno in campagna a fare i lavori più duri. Uno dei campi era verso Pozzolago per cui al ritorno era necessario affrontare una lunga e difficile salita, magari con il “cestone” sulla schiena. Nemmeno lo stato avanzato della sua terza gravidanza l’aveva fermata, tanto che nonno Silvio nacque proprio al suo ritorno a casa, dopo aver affrontato una giornata di fatica e l’impervio percorso di risalita dal fondovalle.

Stefania, Lona

 

Purtroppo un tempo la mortalità infantile era più elevata, ma il dolore non era sicuramente inferiore a quello che si può provare oggi. Alla nonna, dopo aver perso la sua unica figlia femmina appena nata, fu suggerito di andare in Germania ad allattare i figli di un’altra donna. Ci rimase ben due anni, lontana dalla sua famiglia per poter contribuire a sostenerla economicamente.

Eligio, Lona

 

Gli ultimi che hanno ripulito i boschi sotto il paese di Albiano, verso l’Avisio, sono stati dei “carbonai” provenienti dal Bleggio. In squadra, anche una donna che entrò in travaglio proprio mentre lavorava e partorì in mezzo al bosco.

Racconto raccolto da Fiorino, Albiano

 

Mi piaceva tantissimo studiare ma nella mia famiglia, come in molte altre, c’era la convinzione che fossero i maschi ad aver più diritto di andare avanti. Mia mamma non mi fece fare l’esame di italiano a settembre perché tanto, secondo lei, era inutile. Per lo stesso motivo sono rimasta senza sussidiario per tutta la seconda classe e allora cercavo qualsiasi cosa mi consentisse di imparare, persino i ritagli di giornale trovati per strada. Una costanza che è stata premiata visto che che, nonostante tutto, ho vinto il premio come più brava della classe: mi è stato regalato il libro della fiaba di Biancaneve che ancora conservo gelosamente! E l’anno successivo aiutavo la maestra a correggere i compiti e in cambio ricevevo un panino dolce.

Teresa, Cembra

 

Riceviamo e pubblichiamo integralmente questa bellissima storia raccolta da Eliana, Cembra

Nascita avventurosa e corsa verso l’ospedalino in bicicletta

Correvano gli anni’60, la guerra non segnò granché Cembra coi bombardamenti, ma la rinascita è in atto anche qui. L’acqua arriva finalmente in ogni casa, così i primi bagni con le piastrelle,la cucina a gas è un lusso che ci si può permettere finalmente, il frigorifero, la lavatrice, la televisione sono ancora un sogno. In alcune famiglie esiste ancora però il patriarcato / matriarcato.

I figli si sposano e portano la moglie a vivere con suoceri, cognati, cognate, nipoti…Non sempre la vita in comune è facile. Mamma Antonietta e papà Guido si sposano nel 1959 e vivono coi nonni paterni. Subito la vita di mamma si fa pesante, lavora nei campi con papà,che l’adora, deve accudire alle mucche, capre, conigli, galline, aiuta nel bosco per la legna, nei prati per il fieno, coltiva pure l’orto. Collabora con la cognata che da poco aveva partorito. Questa vita la stanca tanto che papà, felice che sia in dolce attesa, acquista una casa tutta per loro, e subito si trasferiscono. Ha così più tempo per lei, ma la fatica sopportata in precedenza la segna. Prepara il corredino, coltiva l’orto, tiene in ordine la sua casa.

A luglio, in attesa di 6 mesi, sente dei dolori mai provati prima…E’ il tempo della sega da mont, e non ci si azzarda a chiamare il marito, per un mal di pancia. Il dolore pero’ continua, si fa intermittente e sempre più forte. La sua mamma va a chiamare in campagna papa’, che stranamente non era a la sega da mont. Sono dolori da parto e arriva pure l’ostetrica-comare.

La biancheria per lei ed il nascituro sono già pronte. Il buon vicinato e la mamma si danno da fare a scaldar acqua come sempre si fa in questi momenti. Arriva pure il medico condotto che non era ancor partito per visite nei paesi vicini. Papà è in apprensione, il medico scrolla la testa……Bisognerà battezzare subito la creatura appena nascerà, altrimenti, come aveva imparato al catechismo, non andrà in paradiso, ma solo li vicino, nel limbo.
La mamma fa tutto ciò che l’ostetrica comanda, papà prega, ripetendo il nome che darà alla creatura..Giovanna, Giovanni..
E finalmente, o forse no, nasce.

Una frugoletta di poco meno di un chilo! Ci sta nelle mani di papà, si muove, prova pure a piangere.. Papà la battezza con le lacrime agli occhi col Battesimo di volontà. E ora? Che si fa?Se rimane a Cembra, come dice il medico, la bimba morirà. Bisogna portarla a Trento all’ ospedalino. Di cercare una macchina neanche parlarne, a piedi morirà lungo il percorso. Nonna cerca la scatola di fili e bottoni che ricevette coi punti in cooperativa, la fodera con ovatta, e la bucherella cosi come il coperchio.
Riempie una bottiglietta della birra con acqua tiepida,la chiude con un pezzetto di tutolo (interno della pannocchia ), l’adagia nella scatola e papà con una delicatezza mai avuta prima, appoggia Giovanna. La disperazione, ben celata, lo prende, ma deve salvarla. Il medico non crede che vivrà, ma lascia che papà faccia ciò che desidera.. Chiusa la scatola col coperchio la lega con lo spago delle lucaniche, lega la scatola alla canna della bicicletta, e senza pensare ad altro, parte. È il 21 luglio, estate.
L’angoscia lo fa pedalare quasi fosse Bartali, il suo idolo. La strada è sassosa, polverosa, piena di curve, in discesa,senza neanche un pezzo in ombra. Papà ogni tanto si ferma per controllare con apprensione come sta Giovanna: è viva. Beve ogni tanto un sorso d’acqua alle fontane dei paesi attraversati.

A Lavis il sole picchia forte, c’è vento, la pedalata è più lenta e difficoltosa. Papà impreca, chiama a raccolta i santi protettori dei nati immaturi, san Domenico Savio e san Giuseppe, san Cristoforo per il viaggio. Arrivato a Trento, al castello, un’altra ultima fatica…la salita della collina. È sfinito, e scorgendo il muraglione del convento,chiede silenziosamente aiuto a san Francesco e sant’ Antonio. Finalmente il cortile degli Angeli.
Slega la scatola, la apre e Giovanna piange disperata. È viva. Le lacrime gli rigano il volto e piange di sollievo.

Sul portone, una suora che l’ aveva visto arrancare su per la collina, esclama:”Vivrà” Ha un telo candido in mano, prende delicatamente Giovanna e la adagia coprendola.
Papà sale a due a due la scala che lo porta al reparto immaturi. Un medico, forse il dottor Pedrotti , serio, austero quasi, la visita, chiama un’infermiera che le prepara qualche goccia di nutrimento specifico. Giovanna in un primo momento rifiuta, ma poi..accoglie quelle prime gocce, non vomita e si addormenta nelle braccia di papà che la adagia nell’ incubatrice. È convinto che le preghiere, sue e di tutti quelli a Cembra che sanno di questa nascita, hanno fatto il miracolo. Saluta la piccola, il personale, il dottore e ringrazia carico di commozione. Giovanna è convinto che vivrà. La strada del ritorno è ancor più faticosa, ma questa gioia non gli fa sentir la fame, la sete, la fatica…Pedala incessantemente per portare la bella notizia alla sua adorata Antonietta e a tutti in famiglia.

Mamma a letto, come si usava allora,consuma la Corona del Rosario intrisa di lacrime. Non sa nulla della sua piccola Giovanna. Mangia per forza il cibo per le puerpere del tempo: panada. Continua a pregare, si addormenta di un sonno agitato e subito si risveglia.
È notte, un passo lento, pesante si ode da dentro…È il suo Guido che madido di sudore, impolverato, affamato ed assetato le corre incontro, la stringe a se, e singhiozzando esclama, con le ultime forze in corpo: “È viva!”
Insieme piangendo ringraziano Dio e tutti i santi che han aiutato Giovanna a vivere nonostante tutto. Giovanna trascorre molto tempo in ospedalino,ma poi torna a casa.
Con la gioia di tutta Cembra.

Eliana, Cembra